giovedì 4 dicembre 2008

Luna di ottobre sullo Zuc

Diari di mont 8 : ultima puntata, in cui si tirano un po' le somme dell'esperienza.
La luna piena di ottobre risplende già alle sei di sera nel cielo cristallino sopra lo Zuc dal Bôr, la montagna che con il suo caratteristico cocuzzolo roccioso sta dirimpetto al Rifugio, dall'altra parte della valle; il sole d'autunno invece accende solo per un'ora al mattino le foglie rosso-brune dei faggi, poi scompare dietro la Sfinge, sbuca ancora per poco verso mezzogiorno, e se ne va subito dopo definitivamente dietro la Cima dei Gjai. La stagione del rifugio è finita, ancora una domenica e poi gli scuretti rossi resteranno ben serrati fino al la prossima estate.

Luna sullo Zuc dal Bor

Ora possiamo tentare qualche considerazione finale. Cominciamo da quelle belle: gli escursionisti del 2008 sono molto più sensibili di un tempo ai problemi ecologici e dello smaltimento dei rifiuti, cosicché siamo orgogliosi di dire che in tutta l'estate non abbiamo dovuto raccogliere sul sentiero nemmeno una cartina di caramella! E nemmeno intorno al rifugio, nei giorni di grande affluenza, sono state lasciate “scovazze”.


Il sole dietro la Sfinge interpretato da Giovanni Vecil

Guarda chi legge

Su proposta della libreria Friulibris di Udine, abbiamo potuto fornire ai nostri ospiti un servizio supplementare sul cui successo all'inizio eravamo piuttosto scettici, vista la tanto conclamata disaffezione degli italiani alla lettura.

Guarda chi legge: Elena e Laura Vecil

Sto parlando dell'angolino del rifugio che offre una cospicua scelta di libri di montagna in vendita: tante bellissime guide, ovviamente, ma anche classici come l'intera collezione dei libri di Julius Kugy, biografie e autobiografie di alpinisti famosi friulani e non, volumi fotografici e libri su piante, funghi e frutti di bosco, nonché gli immancabili libri di cucina di montagna. Interessanti da avere a disposizione, belli da vedere e da sfogliare, ancor più belli da leggere nel loro “habitat” naturale (per così dire)...beh, noi i libri eravamo felici di tenerli in esposizione anche se non fossimo riusciti a venderne neppure uno! E invece... ne abbiamo venduti tanti, molti di più delle più rosee aspettative. E' capitato più di una volta che il libro appena sfogliato da uno di noi gestori con curiosità alla mattina, e poi rimesso sullo scaffale in attesa di leggerlo con calma alla sera, sia stato il primo a essere venduto a ora di pranzo!

Cinzia impegnatissima nella lettura del Nuovo a colazione

Dunque gli escursionisti sono alla ricerca di libri? Si direbbe di sì, forse perché non è facile trovare questi titoli se non nelle librerie specializzate, o forse per portare un regalino a casa (i libri di cucina e sulle erbe) o forse perché ad averli lì liberamente consultabili facevano voglia.

Tanghi e letture

Le due giornate in cui abbiamo registrato la massima affluenza, se si eccettua quella dell'inaugurazione ufficiale del rifugio dopo ben 13 anni di chiusura, hanno coinciso con i due eventi della stagione: il concerto del duo Fassetta, all'interno della manifestazione “Note in Rifugio” il 10 agosto, e le letture di montagna fatte dall'attore Massimo Somaglino domenica 5 ottobre. In entrambi i casi il Rifugio era gremito come non mai, fino all'esaurimento quasi completo delle scorte alimentari.

Erica Fassetta al violino e Gianni Fassetta alla fisarmonica

Passato l'assalto degli affamati, finalmente la relativa quiete durante la performance artistica: il simpaticissimo Gianni Fassetta alla fisarmonica, accompagnato dalla figlia diciottenne Erica al violino, si è esibito all'aperto davanti al rifugio inanellando brani classici, popolari e alcuni struggenti tanghi di Astor Piazzolla, mentre almeno duecento persone lo stavano ad ascoltare incantate; Massimo Somaglino, altrettanto simpatico ed estroverso, ha invece avuto in sorte la prima nevicata della stagione e ha dovuto così radunare all'interno del Rifugio i suoi numerosissimi fans che si sono assiepati su panche, sedie e scalini. Somaglino, lui stesso appassionato di montagna, ha operato una selezione molto interessante di letture, passando da una truce storia di Aldo Barbina a una pagina autobiografica dal diario dell'alpinista buiese Angelo Ursella, da una poesia in carnico di Leonardo Zanier dalla raccolta Il Câli a un racconto di Erri De Luca dalla raccolta Il contrario di uno, da un brano di Marco Albino Ferrari a brani di Vietato volare di Paolo Bizzarro per finire con delle irresistibili pagine di Saltatempo di Stefano Benni.

Massimo Somaglino legge Benni

Quest'ultima lettura, ben collegata logicamente al tempo perduto di cui parla Paolo Bizzarro, è stata davvero esilarante e ha mandato in visibilio la platea, che non avrebbe assolutamente “mollato” il buon Massimo che pure non si era certo risparmiato, leggendo senza interruzione per oltre un'ora e mezza. Insomma, un successo pieno su tutta la linea degli eventi “culturali”.

Paradossi del rifugio

Eppure questo successo porta con sé diversi paradossi e fa riflettere: ma siamo ridotti a tal punto che per portare gente in montagna ci vuole a tutti i costi un evento? E poi siamo davvero sicuri di volere questa concentrazione di folla, che pure abbiamo richiamato noi con le nostre iniziative, in particolare con le letture di Somaglino, completamente autogestite e non inserite in un programma come “Note in rifugio”?

Lauretta, la regina delle felci, tiene il broncio

Qui dobbiamo necessariamente parlare dell'imprevedibilità dell'affluenza del pubblico in un rifugio. Le previsioni meteo influenzano fortemente le gite domenicali, questo si sa, ma anche in una domenica di bel tempo, fino alle 11 del mattino non sappiamo se avremo 10 o 100 persone a tavola. Viene quindi da pensare che anche un minimo di risonanza di un'iniziativa sulla stampa o sulle Tv locali già di per sé favorisce la presa di coscienza che noi “esistiamo”. La situazione è quasi da manuale: se non passi sui media sei trasparente. Alla radio e alla TV friulana la montagna solitamente è presente solo in caso di incidenti e catastrofi.Ivo Pecile, creatore del seguitissimo sito di escursionismo “Sentierinatura” e dell'omonima trasmissione su Telefriuli, dice che nella nostra regione, che pure è montuosa quasi per il 50%, c'è pochissima attenzione da parte dei media alle manifestazioni "in quota", mentre in Alto Adige ogni sera sulla RAI3 locale c'è immancabilmente una trasmissione di 20-30 minuti con riprese e interviste a guide alpine, escursioni, ecc.

Aperto 24 ore

Se vivere “in quota” in un posto così bello come il rifugio Grauzaria non ha che lati positivi, molto più difficile è invece lavorare. Un rifugio – come dice il suo nome nella sua accezione più profonda – è un posto praticamente aperto 24 ore su 24, dove sostare al caldo e ricevere informazioni sui sentieri, è un servizio importante che si dà ai frequentatori della montagna, non è un alberghetto qualsiasi. E poi vi è la complessità del lavoro del gestore, che va dal sistemare i sentieri a fare la scorta di legna nel bosco, dall'attivazione del soccorso alpino alla ristorazione, dalla manutenzione alla contabilità.

Giovanni Vecil al Rifugio

Chi non frequenta abitualmente i rifugi alpini del Cai pensa spesso che il gestore sia in realtà un semplice custode della struttura e pertanto percepisca uno stipendio, sia pur modesto ma fisso, indipendente dalle bizze del meteo e della clientela. Ma non è così: il gestore è un imprenditore con i medesimi obblighi fiscali di un albergatore di pianura, ed in più è tenuto a pagare un affitto alla sezione del Club Alpino proprietaria dell'edificio.

Il frigo dei puffi

Anche i sistemi di approvvigionamento di energia elettrica dovrebbero essere presi in considerazione fin dalla progettazione o ristrutturazione di un rifugio, perché ci si trova schiacciati tra le esigenze sempre maggiori della clientela e la necessità imprescindibile di avere a disposizione l'energia sufficiente per potervi fare fronte, cioè far funzionare illuminazione e frigoriferi. Avere i pannelli fotovoltaici ti fa sentire ecologicamente promosso, ma purtroppo non consente l'autosufficienza energetica: quando piove per due giorni di seguito – emergenza non proprio rara da noi – oppure in autunno, con il sole che si nasconde dietro la Sfinge, i poveri pannelli fanno quello che possono, ma non riescono certo a far funzionare un frigorifero che ha bisogno di essere acceso giorno e notte. Noi abbiamo un frigo a gas, anche se ridicolmente piccolo per le necessità di un alberghetto (qualcuno lo ha chiamato con frase azzeccata “il frigo dei puffi”), e ci sentiamo fortunati rispetto ad altri rifugi recentemente ristrutturati come il Flaiban-Pacherini, che in situazione analoga alla nostra possiede sì un bel frigo grande, ma non riesce a farlo funzionare mai, o meglio solo di giorno, e quindi praticamente deve arrangiarsi senza! Ci sembra che come in tante altre occasioni nel nostro paese molte cose vengano fatte scollegate, e forse nel caso di un rifugio lo si immagina in modo romantico, ottocentesco, senza tener conto delle reali necessità dei nostri tempi.

Elena Vecil gioca a fare Robin Hood con arco e frecce

Mi ero ripromessa di concludere raccontando anche il punto di vista dei bambini: e che cosa hanno detto o pensato Elena, Giovanni e Laura della loro vita al rifugio? I bambini, saggiamente, non si sbilanciano, e forse snobbano un po' i grandi che li assillano con simili domande. Loro hanno vissuto, sono cresciuti, questo è tutto: hanno fatto la casetta di rami nel bosco, hanno giocato e slittato sulla neve, si sono rincorsi e talvolta accapigliati, hanno provato a scalare i roccioni intorno al rifugio con il loro papà. Forse da grandi ricorderanno con struggimento di essere andati in giro nel bosco di notte, o forse no, ma certo qualcosa di questa vita essenziale resterà in fondo al loro crescere.

Per amore del Friuli, in Friuli per amore

(Diari di mont 7) - In cui si raccontano le storie parallele di Monica, Fabio e Kaspar che venendo da altri luoghi hanno scelto di vivere in Val Aupa.

Strano posto davvero la valle del Glagnò, luogo solitario e selvaggio come pochi altri, per incontrare, il 20 settembre, proprio le due persone che tanto desideravo conoscere e intervistare: si chiamano Fabio Acerbi e Monica Ugaglia e da un anno e mezzo vivono nella borgata di Grauzaria, in val Aupa. Così, accomunati dalla piacevole scoperta di amare gli stessi luoghi selvatici e fuori mano, ci ritroviamo la sera seguente per una lunga chiacchierata.

Fabio e Monica non sono friulani: lui è nato a Livorno nel 1965; Monica è astigiana, classe 1970. Sono entrambi fisici matematici ma ora si occupano di storia della scienza. Ma come sono capitati proprio qui? “La prima volta che siamo venuti in questo posto meraviglioso - esordisce Fabio - è stato 12 anni fa, quando entrambi abitavamo ancora a Trieste e facevamo il dottorato in matematica alla Sissa, amiamo andare in montagna spesso, ci sono stati periodi in cui ci andavamo 60 volte all'anno! “


Fabio Acerbi

Infatti sento Fabio chiamare per nome in modo preciso anche i luoghi più sconosciuti della val Aupa; racconta di aver dormito più volte d'inverno alla casera Palis di Lius e anche al Rifugio Grauzaria, con un freddo peloso (qui la sua origine toscana lo tradisce), e di conoscere anche l'Alta via Val d'Incarojo e la recondita valle del Rio Simon, che per lui è “di una bellezza ineguagliabile”.

Un angolino di Grauzaria

In Friuli per scelta

Fabio ha insegnato matematica al liceo Stellini dal 95 al 99, poi si è trasferito con Monica in Toscana, per tornare per scelta in Friuli nel dicembre 2002, quando ha vinto il concorso come insegnante di ruolo e ha chiesto e ottenuto come sede Gemona. Allora Fabio e Monica sono andati ad abitare a Portis di Venzone, dove sono rimasti fino al 2005.


Monica Ugaglia



Fabio prosegue: “Poi ho avuto un posto di ricercatore al CNRS, l'analogo francese del CNR, e allora ci siamo trasferiti in Francia, nelle Cevennes, in un paradiso di boschi,ma è stato uno strazio, ho avuto una nostalgia mostruosa delle montagne, eppure lì c'era un silenzio impressionante e cieli stellati incredibili. Una volta presa la decisione di tornare qui, abbiamo innanzitutto cercato casa. Questa in val Aupa era la migliore in quanto a isolamento, così nel maggio 2007 abbiamo traslocato, e da allora siamo qui!”
Il discorso passa a Monica che si alterna a Fabio con perfetta sintonia: “Fabio si occupa di storia della matematica greca, io di Aristotele e della tradizione aristotelica. Grazie alle moderne tecnologie possiamo lavorare a casa tenendo i contatti con la posta elettronica, proprio come faremmo a Parigi. In rete ci sono moltissimi strumenti e poi abbiamo una biblioteca personale di circa 6000 volumi, in cui abbiamo investito negli anni tutte le nostre risorse, così ora siamo totalmente indipendenti come base dati.”


Praticare la decrescita

Fabio dice: “Sono rimasto folgorato dalle montagne friulane. Ho vissuto in Toscana, a Roma, in Piemonte, in Francia ma questo è il posto in cui mi sento davvero a casa. Girando in montagna abbiamo conosciuto gente un po' rude, è vero, ma i rapporti sono tutti di una certa profondità.” E Monica: “Ci troviamo bene con le persone che hanno un forte legame con il posto in cui vivono, persone concrete che spesso conducono una vita spartana, minimale, come si faceva fino a qualche decina di anni fa nell'Italia rurale e che adesso non esiste quasi più.”

Siamo così arrivati al punto centrale della scelta di Fabio e Monica. “Il mondo com'è adesso ci appare insopportabile – dice Fabio - e allora o ti impegni in modo serissimo per cambiarlo oppure ti isoli. Abbiamo sempre pensato che era sufficiente che uno solo di noi entrasse nella trappola del lavoro, e negli anni in cui avevamo pochi soldi abbiamo maturato la capacità di ridurre quasi a zero le spese. Qui possiamo vivere in modo coerente, pratichiamo la decrescita in modo convinto, niente cellulare né TV, elettrodomestici ridotti al minimo. Pur abitando sostanzialmente isolati, abbiamo ridotto al minimo anche l'uso dell'automobile, e quando vado in Francia per lavoro ci vado in treno.”
E Monica conclude: “E poi adesso abitiamo in un posto dove vivere è come far vacanza, anche se qui il sole non è proprio prodigo dei suoi raggi. E' un posto a cui ci siamo legati subito e in cui vorremmo restare. Non è una casa dormitorio per noi, non siamo venuti qui per stare con la testa da tutt'altra parte. Oggi in montagna ci vivi bene solo se hai una forte motivazione, pertanto non è affatto assurdo che persone come noi vivano in val Aupa.”

Ai Drentus con amore
Del tutto diversa, ma altrettanto forte è la motivazione che ha portato a vivere in val Aupa
Kaspar Nickles, 30 anni, che si definisce orgogliosamente innanzitutto “contadino” e solo in seconda battuta “dottore in agraria” e “guida naturalistica”. Ci diamo appuntamento nella sua casa ai Drentus, una minuscola borgata di quattro case raggiungibile in macchina da Pradis con una lunghissima strada oppure da Dordolla a piedi con un breve sentiero.


Kaspar al lavoro ai Drentus, con sullo sfondo la Grauzaria

A differenza di Monica e Fabio, che abitano sulle estreme falde della Grauzaria, Kaspar la montagna ce l'ha proprio di fronte, tozza, massiccia, e infatti lo fa pensare a “Maria Teresa, imperatrice autoritaria con tutte le sue gonne di crinolina”. Ed è qui che sotto lo sguardo arcigno della montagna-sovrana Kaspar vive con la moglie Marina Tolazzi, storica “voce” di Onde Furlane, e i due figli Cosme e Josef (quest'ultimo di appena un mese e mezzo).

Kaspar con il primogenito Cosme e Marina in dolce attesa

Kaspar e Marina hanno creato un’azienda agricola in cui si allevano le pecore di razza plezzana e si coltivano i prodotti tipici della montagna friulana, soprattutto patate e fagioli, ma il loro obbiettivo per i prossimi anni è quello di organizzare una fattoria didattica e aprire un agriturismo. Intanto tra la pappa di un pupo e le corse e le tombole dell'altro riesco a scoprire come vede Kaspar la vita in val Aupa.

Campetti di fagioli a Dordolla



I segni del passato

Kaspar racconta: “Prima di conoscere Marina, che è di Dordolla, io qui non ci ero mai stato, e anche il Friuli non lo conoscevo molto. Io sono nato in Germania, nel Baden-Württemberg, ma quando avevo otto anni i miei genitori - che facevano gli insegnanti – hanno comprato un'azienda agricola in Carinzia, un posto isolato a 1000 metri di quota, e lì si sono trasferiti con i loro quattro figli. La val Aupa è bella anche se è aspra, rispetto alle montagne cui ero abituato, e il clima è piuttosto piovoso e non molto favorevole all'agricoltura. In Austria gli insediamenti di montagna sono molto diversi, un territorio come quello attorno a Dordolla sarebbe gestito da due o tre aziende agricole, grazie a un sistema che non frammenta le eredità fondiarie.


Un bel ritratto di Kaspar

Il fascino della val Aupa per me sta nei numerosi segni dell’attività umana del passato che riscopro ogni giorno, seminascosti ma ancora leggibili: sentieri, muretti a secco, mulattiere lastricate mi fanno capire l'immane fatica che hanno fatto le generazioni passate (ma non tanto lontane nel tempo) per sopravvivere in questo ambiente difficile, e come lo hanno modificato senza snaturarlo. Mi si stringe il cuore al pensiero che tutto questo patrimonio vada perso, e sento quasi come un obbligo morale la sua salvaguardia. Anche la bellezza e l’integrità di Dordolla, con le sue viuzze strette dove le macchine non possono passare, nascono da quello che in apparenza è uno svantaggio, la mancanza di una strada, che però può diventare la chiave del futuro di questi posti.”

La cura del paesaggio

Sto ad ascoltare Kaspar che non solo si esprime in italiano con stupefacente proprietà di linguaggio (del resto a scuola la sua materia preferita era il latino) ma capisce benissimo anche il friulano, anche se non lo parla ancora.

Pecore plezzane a Drentus

Del resto Kaspar sembra avere le idee molto chiare e i piedi ben piantati per terra quando mi illustra la sua filosofia di vita mentre culla il piccolo Josef a pancia in giù sulle sue braccia: “Faccio agricoltura perché mi piace, e mi piace anche l’idea di mantenere almeno la possibilità di sopravvivere senza supermercati e petrolio; al tempo stesso so benissimo che è un’illusione quella di poter vivere di agricoltura in questi posti, e quindi è giocoforza abbinarla al turismo. In Austria tanti contadini di montagna vivono di turismo e non di agricoltura. E poi là vengono investiti molti soldi nella cura del paesaggio, che è un bene pubblico che tutti possono sfruttare, quindi anche i contadini - che ne sono i principali artefici - vengono retribuiti per il loro lavoro.

Kaspar con la gerla

Però a me non interessa un turismo fine a se stesso, ma solo come parte dell'agricoltura; del resto senza agricoltura non fai turismo, perché la maggior parte dei turisti non cerca affatto la natura selvaggia, ma un luogo curato, pulito e attraente. Ma la cura da sola non basta: ci vuole un paesaggio vivo che puoi ottenere solo con l’agricoltura e l’allevamento, i prati e i pascoli e gli animali sono un simbolo di vita. L'agricoltura contiene anche una componente artistica, la creazione di luoghi belli che per di più ti regalano cibo sano ed energia rinnovabile; quando faccio la guida naturalistica per il Parco delle Prealpi Giulie, racconto ai bambini che faccio il contadino e cerco di far capire loro che la natura può anche essere utilizzata dall'uomo senza essere distrutta o contaminata. E questo concetto io cerco di realizzarlo nel mio lavoro.”

I bio-tesori della Val Aupa

Elena Not di Dordolla racconta di piatti tradizionali e di erbe e frutti della Val Aupa, coltivati negli orti o cresciuti spontanei, chiamandoli tutti con il loro melodioso nome friulano nella variante locale.

Proprio in concomitanza con la rumorosa sagra di Friuli DOC ho avuto la fortuna di intervistare, nel silenzio settembrino del Rifugio, una persona che conosce a menadito i misconosciuti tesori vegetali e culinari, oltre che culturali, della Val Aupa, e che ha acconsentito a condividerli con me. Ma questa rapida carrellata assume un significato quasi antropologico, perché mi fa capire come la gente della valle dovesse avere necessariamente, per sopravvivere, una conoscenza profonda della natura e del territorio. La mia informatrice è Elena Not, classe 1954, nativa della piccola frazione di Grauzaria, ma sposatasi a Dordolla dove ormai vive da molti anni.

La misteriosa miole

“Comincerò dalle erbe – mi dice Elena nel bel friulano di Moggio- una volta non c'erano medicine e ci si curava con erbe, le conoscevamo fin da piccoli. Gli orti erano curatissimi e si coltivava di tutto, anche a Grauzaria che è in una posizione meno soleggiata di Dordolla. Le erbe dell'orto servivano sia per insaporire i cibi che per fare tisane: tutti avevano almeno camomilla, finocchio, ruta, melissa, menta, maggiorana. Quest'ultima, la miserane, la si metteva soprattutto nelle carni di coniglio. E poi c'è la miole, che ha un sapore un grum particolâr, infatti la tenevano nell'orto solo quelli a cui piaceva.”

Fiori di miole

Di questa pianta un po' misteriosa, il cui nome non è citato nemmeno sul vocabolario Pirona, sono riuscita con fatica a risalire al nome latino: Tanacetum balsamita, un'erbacea perenne dal lungo stelo, con le foglie frastagliate e le infiorescenze a bottoncino giallo. Elena precisa: “In effetti non la conoscono in molti. A Grauzaria ce l'avevano tutti, a Dordolla invece solo due famiglie, sono stata io praticamente a diffonderla. Con la miole in primavera si fanno frittate con le foglie fresche tagliate fini fini, e nessun'altra erba. E' depurativa dell'intestino e in grandi dosi è tossica, veniva usata anche contro i vermi. E, a proposito, va fatta rosolare nel burro, l'olio toglie il sapore dell'erba, anzi una volta adoperavano l'ont .”

Ont e cuincîr

Si apre inaspettatamente il capitolo dell'ont che secondo Elena dava a certi cibi un sapore veramente particolare. Veniva fatto con il burro, facendolo bollire a fuoco lentissimo finché – dopo una prima schiumatura - il liquido prendeva un bel colore dorato. Era pronto quando si formavano lis scoladuris, dei grumetti color marrone, con sopra una schiuma chiara e soffice. Allora veniva travasato nella piere da l'ont, un vaso di pietra chiuso con un coperchio di legno. Mi stupisco che Elena ne conosca il procedimento a menadito. “Ah, l'ho visto fare tante volte, mia suocera lo adoperava sempre, ma da quando esistono i frigoriferi penso che non lo faccia più nessuno, e comunque con il burro di adesso non viene buono. Il segreto stava nel non farlo bollire forte; veniva duro come lo strutto e si conservava per mesi e mesi. E lis scoladuris non venivano buttate, ma si mangiavano con la polenta.” Il ricordo dell'ont fa venire in mente a Elena un'altro cibo particolare e dimenticato, il cuincîr. Il ciuncîr al è une roibe particolarissime. Si faceva nelle famiglie con ricotta fresca, sale, pepe e brume (panna), e come lo jogurt veniva lasciato a fermentare vicino allo spolert. Ogni 2-3 giorni andava mescolato. Nei primi giorni si aggiungeva anche un po' di panna fresca finché assumeva una consistenza morbida come una crema spalmabile; dopo non si aggiungeva più niente. Aveva un sapore un po' piccante, molto particolare, e veniva mangiato con la polenta arrostita o spalmato sul pane o con le patate lesse. Era un cibo pregiato, tenuto da conto per Natale. Oggi forse lo puoi trovare solo dal Bill, nella sua malga di Riu Sec in val Pontebbana.”

Altre squisitezze

Ormai Elena è lanciatissima: “Era ottimo anche il tocj di brume quando si aveva l'occasione di avere la panna, cosa rarissima nelle case perché la panna la tenevano per fare il burro. Facevano un po' di frico usando formaggio stagionato, lo amalgamavano a pezzetti con la panna e lo mangiavano con la polenta. Qualcuno lo faceva anche con l'aceto e allora si chiamava tocj di asêt. Ma se vuoi sapere quale è la nostra minestra tipica ti dirò che è la mignestre di brovedâr , fatta con le rape raccolte in novembre dopo il primo gelo.

Rape per fare il brovedàr

Va lasciato un toc di viscje, un pezzo della foglia, quella più tenera. La preparazione del brovedàr è lunga, ci vogliono almeno due mesi: si fanno bollire le rape a pezzetti per qualche minuto, poi le si fa asciugare e le si mette nella brente, un apposito contenitore di legno con coperchio. Si coprono con vinaccia, acqua e foglie di verza e sul coperchio viene messo un grande sasso. Resta così fino a gennaio. Poi le rape vengono macinate, risciacquate e messe a bollire per 3-4 ore con aglio e fagioli. Alla fine si mette anche un ues di purcit o il muset, sale, pepe e una foglia di salvia. Mia mamma Carmela la fa ancora ogni anno, ed è anche il piatto forte dell'osteria di Dordolla.”

Cento erbe

Tutte le altre minestre e minestroni si fanno con le erbe disponibili sul momento. Secondo Elena è particolarmente buono il farinuç, che si trova in grande abbondanza in montagna alla fine di giugno. E' una specie di spinacio dal sapore più accentuato, con cui si possono fare gnocchi, minestre, risotti e ripieni per crespelle. “E poi – continua Elena - mi vengono in mente sparc salvadi (asparago selvatico), frignacule (parietaria), vorele di gneur (licnide bianca), pan e vin (acetosella), burale (carlina) che si può mangiare cruda, oppure cotta come i carciofi.

Poi ci sono le piante medicinali, plantagn (piantaggine) contro le botte e in decotto contro la tosse, arniche (arnica)che si metteva nell'olio di oliva per fare massaggi contro i dolori articolari, enziane (genziana)conosciutissima da tutti e abbondante sulle nostre montagne, si mette nella grappa come digestivo o nel vino come aperitivo. E la resina del larice, l'ariàn,da usare come unguento o per fare fumenti contro bronchiti e raffreddori.”

Mi stupisco ancora una volta di come Elena conosca tutte queste piante e il loro utilizzo, e penso che le persone della sua generazione sono probabilmente le ultime in cui queste conoscenze non sono acquisite sui libri ma un sapere indissolubilmente legato alla vita pratica, addirittura alla sopravvivenza. La valle era uno spazio che apparteneva loro totalmente e di cui possedevano una dettagliata mappa mentale, con le “tane” delle erbe e dei frutti e il momento buono per raccoglierli.


Lichene d'Islanda

Basta che tu pensi – mi dice Elena - che una volta adulti e bambini stavano via tutto il giorno a fare fieno e nelle pause del lavoro raccoglievano quello che trovavano, ad esempio quella che noi chiamiamo palmonarie (Lichene d'Islanda) che serve per fare beveroni alle vacche che hanno appena partorito, e la jarbe-cole (Licopodio annotino), un'erba comunissima che raccolta in lunghi fasci serviva a foderare il coladôr (imbuto)del latte perché non passasse giù neanche un pelo di mucca!”

Frutti di bosco

Se passiamo ai frutti selvatici, vengono in mente subito mirtilli e lamponi, chiamati in Val Aupa rispettivamente ciargniculis e mujeis, e poi il sambuco (saudâr). “Puoi farci marmellate o sciroppi, oppure mettere a seccare qualche bel rametto di mirtillo con frutti e foglie e fare un buon tè. In tutte le case c'era lo sciroppo fatto con le bacche del sambuco, da bere con acqua calda nelle forme influenzali. Invece lo sciroppo fatto con i fiori è una moda degli ultimi trent'anni, forse perché prima comprare i limoni era un lusso. Con i fiori si possono fare anche frittelle o frittate. Io faccio il tè (o la marmellata, che però è molto laboriosa) con gli spicecûi, le bacche di rosa canina.

Ma queste sono piante che conoscono tutti. Da bambini andavamo a raccogliere le bacche del blancjâr (sorbo montano), del malesc (sorbo degli uccellatori) e della bisuvigne (pero corvino), un arbusto con bellissimi fiori bianchi a forma di stella e delle pere in miniatura come frutti. Di solito ce ne sono poche, ma sotto grappa sono buonissime, viene un liquore quasi come il rum. E sai cosa sono i cjavroluts? In Carnia li chiamano riscjeluts, sono delle bacche rosse con foglie simili alla fragola, in italiano si chiama rovo erbaiolo....”

Pero corvino

Piante da salvare

Di fronte a tanta grazia c'è di che perdere il filo, così sposto il discorso verso gli alberi da frutto, senza sapere di toccare un punto dolente. “In Val Aupa – dice Elena – c'erano tantissime piante di pero della varietà che noi chiamiamo “piruz di san Michel”, ma sono state trascurate e abbandonate e non producono più nulla. Con i frutti si fa un ottimo sidro e poi una prelibatezza che noi chiamiamo lis clozis. Quando le pere sono mature, e hanno un colore nero ma sono ancora belle sode, si mettono in forno: ne esce tutto il succo e diventano come un frutto candito, si conservano facilmente anche per un anno! In Val Aupa si facevano i cjalzons dolci per Natale, e per il ripieno si usava ricotta fresca, clozis, cannella e, quando c'era, un po' di cacao. Una volta lessati, si condivano con zucchero, cannella e naturalmente con l'ont!”

Impressioni di settembre al Rifugio Grauzaria

Diari di mont 5 - In questa puntata si racconta di una vecchia stufa assurta a simbolo di un rito di passaggio, di alcuni ospiti particolari del rifugio, dei bivacchi di Kugy e della solitudine del Bivacco Feruglio sul Gran Circo.

Settembre è iniziato, qui in Grauzaria, con un grande nebbione che staziona da giorni sulle cime e sul bosco, ovattando ogni cosa e invitando a fare bilanci e riflessioni. Le nebbie fanno risaltare le forme delle pareti, speroni e torrette che altrimenti nemmeno si notano quando la luce del sole colpisce la roccia.

Nubi nel canalone

Abitiamo al Rifugio ormai da tre mesi. Anche noi, come tutti i turisti e gli escursionisti, saliamo a piedi lungo il sentiero nel bosco e sui ghiaioni, impiegandoci circa un'oretta. Il rifugio lo si intravvede solo all'ultimo momento, tra gli alberi, ai piedi delle pareti della Sfinge: appare come un bell'edificio bianco con vezzosi scuretti rossi e i gerani alle finestre. Dal di fuori, solo pochi si accorgono che dopo la ristrutturazione il rifugio è stato quasi raddoppiato: l'ampliamento è avvenuto in modo rispettoso e tutto sommato poco appariscente, per fortuna; solo entrando ci si accorge davvero di quanto è cambiato. Ci aspettiamo dunque che questo susciti la maggior parte dei commenti e delle reazioni dei visitatori. Ma ecco la prima sorpresa: quasi tutti i frequentatori “over 50” si guardano attorno spaesati e cercano...una vecchia stufa! E quando finalmente la scorgono in un angolo del rifugio, seminascosta dal banco del bar, tirano un respiro di sollievo e sembrano aver assolto un pellegrinaggio. Come mai?

Sappiamo che il consiglio del Cai di Moggio ha animatamente discusso – durante la ristrutturazione – se conservarla oppure no, e il partito favorevole è passato a strettissima maggioranza.

Il monolito di ghisa

Che cosa mai si incarna in quel parallelepipedo di ghisa un po' arrugginito dal funzionamento dubbio e fumoso, con una panca che gli gira tutto attorno? La vecchia stufa ha un aspetto extraterrestre, un monolito caduto giù dallo spazio, anche perché è apparentemente senza camino. In realtà solo gli iniziati conoscevano la procedura segreta del suo efficientissimo tiraggio, dovuto a un camino sotterraneo obliquo che sale poi attraverso una colonna. Come recitava un ambiguo cartellino dell'epoca, bisognava “eccitare” (sic!) il camino con un foglio di giornale acceso per far funzionare la stufa. Non tutti gli escursionisti dell'epoca sapevano come fare, e molti di loro hanno passato serate affumicate intorno al mostro di ghisa, eppure questo ricordo è rimasto loro indelebilmente impresso, e lo cercano disperatamente. Il significato di questi ricordi “attorno al fuoco” me l'ha spiegato nel modo più chiaro la signora Loretta, originaria di Moggio: “non avevamo ancora 18 anni, erano le nostre prime uscite, le prime notti che passavamo fuori casa, e questo aveva un sapore fortemente trasgressivo”...insomma, in questo senso la vecchia stufa è diventata per molti il simbolo di un rito di passaggio.

Cinzia e Lauretta nell'angolo della stufa

Oggi i gruppi di giovani brillano per la loro assenza, preferendo probabilmente altri ambienti per “socializzare”. Quasi commovente in questo senso è stata la “rimpatriata” di alcuni escursionisti di Valeriano, venuti qui a celebrare i quarant'anni della fondazione del loro gruppo, avvenuta proprio al rifugio, attorno alla famosa stufa. Uno dei presenti aveva tenuto un diario dettagliatissimo della storica “prima uscita”, e lo leggeva ad alta voce, quasi religiosamente, agli altri amici. Allora lo prendevano in giro – ci ha detto – perché restava sempre indietro sul sentiero a scrivere appunti sul suo quadernetto, oggi quegli scarabocchi veloci fatti “in diretta” servono a recuperare un tempo perduto della giovinezza.

Del tutto incomprensibili invece ci restano quegli escursionisti che, arrivati al rifugio come tappa intermedia o finale della loro camminata, si siedono scomodamente sullo stretto marciapiede a consumare il loro panino, senza né entrare ad allungare le gambe sotto a un tavolo né tantomeno sistemarsi in uno dei mille appartati angolini del bosco disponibili gratuitamente tutt'intorno. Evidentemente per tutti costoro la presenza di un edificio in muratura nel bel mezzo della “wilderness” della natura dà un senso di sicurezza cui non sono disposti a rinunciare, forse sono presi da un senso di disagio di fronte alla troppa natura.

Ospiti speciali

Gli escursionisti di lungo raggio brillano pure per la loro assenza. Invece, in agosto, pochi giorni dopo la famosa staffetta dei tre Rifugi a Collina, abbiamo avuto una visita sorprendente: tre baldi giovanotti, John Martina e Riki Marcon di Chiusaforte, insieme a Giovanni Motta, siciliano ormai naturalizzato carnico, partiti da Moggio di Sopra (quota 320 m) hanno risalito la valle del Glagnò fino alla forcella Nuviernulis (1700 m), sono saliti sulla cima del Sernio (2187 m) e scesi al rifugio (1250 m).

John, Ricky e Giovanni al Rifugio

Ma la loro performance era solo a metà: erano diretti ancora sulla Grauzaria (2065 m), poi per il canalone del Rio de la Forcje sarebbero discesi e poi risaliti al monte Cimadors (1600 m) e quindi finalmente rientrati alla base. Il tutto per la bellezza di 3000 metri di dislivello in salita e altrettanti in discesa, e in un solo giorno, per un percorso che ne richiederebbe due abbondanti a un escursionista medio.

Luciano Santin, che cura sul Messaggero Veneto la pagina della montagna, sta girando, per l'emittente televisiva triestina Tele4, una serie di filmati dedicati ai monti descritti da Julius Kugy nel volume “Dalla vita di un alpinista”. Abbiamo così avuto il piacere di averlo nostro ospite per la prima puntata, quella dedicata al monte Sernio.

Quel gran testone del Sernio

Al suo intrepido cameraman, che ha accettato la fatica della scalata pur non avendo alcuna esperienza di montagna, dedichiamo queste parole di Kugy: “quel testone del Sernio, che pur non arrivando ad altezze considerevoli, sa mantenere all'ingiro il più indovinato aspetto di una vetta d'alta montagna.”

Kugy e i bivacchi

Le pagine più affascinanti di Kugy, secondo me, sono quelle che raccontano i bivacchi fatti in qualche angolino sperduto delle montagne, durante le ascensioni o sulle vette. Pratica oramai del tutto desueta, nonostante le attrezzature odierne leggere e affidabili, che potrebbero renderla molto più comoda di un tempo, quando la si affrontava solo con una mantella di loden addosso (nel migliore dei casi). Kugy ad esempio racconta di aver dormito “in un magnifico posticino erboso” nel più profondo avvallamento della cresta tra Sernio e Grauzaria, facendo una traversata tra un monte e l'altro. In un altro passo si vanta di aver trascorso 150, forse anche 200 notti all'aperto sui monti.

La copertina del libro di Kugy "Dalla vita di un alpinista"

Quale era il segreto per sentirsi riposati alla mattina, come se si fosse dormito in un letto? Lasciamolo dire a lui stesso:”Nei bivacchi stanno male quegli alpinisti che sogliono partire tardi dal fondovalle, in modo da arrivare sul posto al calar del giorno. Bisogna andare al bivacco volentieri e per tempo, se no, è meglio farne a meno. Se mi era possibile, io mi trovavo sul posto molto tempo prima dell'ora di andare a dormire.”

Sulla cima del Sernio

E aggiunge la famosa frase:”E allora è giusta la mia affermazione che si conosce bene una montagna quando ci si dorme sopra.”

Altri bivacchi

Oggi come oggi nel gergo alpinistico bivacco ha anche un altro significato: designa quelle semplici costruzioni di lamiera, situate in posti strategici, ai piedi di importanti pareti, che offrono delle spartane cuccette per il pernottamento di sei-nove persone. Uno, bellissimo e solitario, il bivacco Bianchi, è situato proprio dirimpetto al rifugio, ma lontanissimo, sull'altro versante della valle, in una conca erbosa ai piedi dello Zuc dal Bor, un monte dal nome strano e dall'aspetto inconfondibile (vi si accede dalla val Alba o da Dordolla). Nelle giornate particolarmente limpide riluce come un minuscolo puntino rosso. Una notte vi abbiamo visto brillare un fuoco. E' bello sapere che è là.

Il Bivacco Feruglio

Ma c'è un altro bivacco molto più vicino a noi, anche se non lo vediamo perché è sul versante opposto della Creta: è il Bivacco Feruglio, se possibile ancor più solitario del precedente. Si trova in uno strano pianoro sassoso e lunare chiamato Gran Circo, a 1700 metri di quota, laddove prende origine il grande ghiaione centrale della Grauzaria. Arrivarci non è banale e forse per questo pochi ci si avventurano: con un ardito sentierino si passa vicino ai campanili di Flop, caratteristiche torri isolate dalle forme strane, poi ci si infila in uno stretto camminamento tra alcune grandi lame di roccia e la parete, infine ci si inerpica per roccette avendo prima a fianco e poi sotto di sé la Medace, un campanile roccioso isolato ed aguzzo.

La Medace

Ci siamo andati da poco, il bivacco è appena stato ridipinto e luccica di un rosso fiammante nella bianca solitudine, mentre la vista, al di là della val Aupa, si apre fino alla pianura azzurrina. Sul ghiaione vediamo scendere una mamma camoscio seguita dal suo piccolo. Lì vicino ho raccolto alcune pietre dai riflessi iridescenti, ma ormai lo so che in basso perderanno il loro brillio. Come in una fiaba, non cercare il possesso, dicono.

All'ombra della Sfinge

(Diari di mont 4 – 25 agosto 2008) Sono ormai passate le giornate lunghissime di piena estate e dopo la pioggia di ferragosto nell'aria si è diffusa una pacatezza quasi autunnale. Il sole è ancora caldo, ma già a mezzogiorno si nasconde, per un'oretta, dietro il testone della Sfinge e l'ombra cade sul rifugio.

La Sfinge vista da Elena Vecil

Noi che viviamo qui ci siamo abituati e quasi non ce ne accorgiamo, ma chi arriva per la prima volta resta impressionato dalla potenza delle pareti calcaree che chiudono la valle. Sono le famose (un tempo) pareti della Grauzaria, meta obbligata di tutti gli arrampicatori friulani e triestini dagli anni Cinquanta ai primi anni Ottanta, di cui ha cantato un po' l'epopea Paolo Bizzarro nel suo bel libro “Vietato volare”. Già la prima guida del massiccio, quella di Oscar Soravito, nel 1951 così le descriveva: “magnifiche pareti rocciose, gole profonde, spigoli taglienti in un ambiente severo e grandioso, in cui ottocento metri di roccia separano i pascoli e le ghiaie dalla vetta”. E ancora: “un complesso poderoso, slanciato, severo di rocce dalle tinte chiare, pareti verticali dalle stratificazioni regolari che formano un quadro mutevole, suggestivo e selvaggio”. E della Sfinge: la “possente cima rocciosa che precipita con altissime pareti su Flop e il vertiginoso spigolo nord strapiombante e verticale per lunghi tratti”. Non so chi per primo abbia chiamato così la Sfinge, per la somiglianza del suo profilo con quello di un uomo arcigno; certo che più che alla sua omonima egiziana fa pensare ai monoliti dell'Isola di Pasqua, oppure, con immaginazione più cinematografica, alla Maschera di Ferro (così infatti la interpreta nei suoi disegni Elena, 10 anni).

Sulla direttissima

La prima salita della Grauzaria per la cosiddetta “via normale” fu effettuata il 18 giugno 1893 da Arturo Ferrucci e Emilio Pico. La cosiddetta “direttissima”, salita da Napoleone Cozzi e Tullio Cepich nel 1900, una via di II grado, rappresentava all'epoca uno degli itinerari più difficili delle Alpi Carniche! Poi, cito ancora Soravito, “l'alpinismo si evolve, non basta toccare la vetta forzando il punto di minore resistenza, si vuole affrontare il versante più ripido e difficile, il lato esteticamente più interessante, il problema più complicato”.
Fu proprio Soravito con Celso Gilberti ad aprire, sulla parete nord della Sfinge, il 4 ottobre 1927,
la superclassica via che porta appunto il loro nome. Il 1927 segna l'inizio dell'esplorazione sistematica del gruppo, Dionisio Feruglio tra il 1933 e il 1938 ne fa il suo campo d'azione preferito; Renzo Stabile vi effettua oltre 20 prime salite, completandone la ricognizione alpinistica con tenacia e costanza. In anni più vicini a noi Paolo Bizzarro con Roberto Simonetti ha aperto una famosa via di V grado nel 1974, poi è stata la volta di Mario Di Gallo, fortissimo alpinista di Moggio, che ha aperto molte nuove vie molto difficili. E “i formidabili appicchi nord della Sfinge” che – scriveva Soravito - “ancora attendono di essere saliti direttamente”, sono stati saliti da due cordate diverse e in periodi diversi dello stesso anno il 1968: il 15-16 maggio Sergio De Infanti e Antonio Solero superarono la parte superiore, la “via del naso”, con limitato uso di chiodi e riuscendo a superare passaggi di vero VI grado; nel luglio dello stesso anno fu la cordata di Marcello Bulfoni e Tonino Mansutti a forzare in più riprese e con largo impiego di chiodi per la progressione (la cosiddetta arrampicata artificiale) la parte sottostante. Soltanto nel 1983 ci si ricordò di questo grande itinerario con le prime ripetizioni e la prima salita integrale e in arrampicata libera (con l’uso dei chiodi per la sola protezione) il 27 agosto a opera di Mario Di Gallo e Antonio Frezza.

La cresta vista da Sud

Oggi invece Sfinge e Grauzaria sono andate fuori moda e cadute un po' nel dimenticatoio. Ci rendiamo conto che fra le varie categorie di frequentatori del rifugio oggi, rispetto a vent'anni fa, ci sono mancati quasi completamente gli alpinisti. E proprio con Mario Di Gallo, funzionario forestale regionale e dal 1986 guida alpina, abbiamo occasione di parlare riguardo alle attuali tendenze dell'alpinismo e dell'arrampicata.

Mario, classe 1958, è ben noto non solo per la sua attività alpinistica, ma anche per aver effettuato, alla fine degli anni Ottanta, la stesura, insieme a Attilio De Rovere, della nuova edizione del volume “Alpi Carniche” della prestigiosa guida del CAI-TCI “Guida dei monti d'Italia”. Mario, che questi monti li conosce davvero come le sue tasche, è la persona più adatta per fare il punto della situazione.

“E' vera la tua impressione – inizia a raccontare – ci sono sempre meno alpinisti sulle vie classiche di roccia. Attualmente si sta sviluppando sempre di più la cosiddetta “arrampicata sportiva”, che consiste nell'apertura di vie protette con chiodi a espansione (nei fori praticati con il trapano a batteria si infilano e si tendono i tasselli a espansione, commercialmente noti come “fischer” o “spit”) sulle pareti alpine, portando in alta montagna ciò che viene fatto nelle palestre di roccia. Questa tendenza, iniziata nelle Alpi Occidentali circa 20 anni fa, è cominciata qui da noi da circa 15 anni, uno dei primi in regione a praticarla è stato Attilio De Rovere e il triestino Marco Sterni ne è il massimo interprete con le sue mirabolanti realizzazioni sulle pareti del Robon (nella zona di Sella Nevea). Si tratta in pratica di vie di alta difficoltà, di solito superiori al VI grado UIAA (ma sarebbe meglio usare la scala francese: 6a, 6b, ecc.) che presentano punti di sosta e di protezione dalle cadute attrezzati con i chiodi a espansione, posizionati a piacere su pareti completamente lisce, in modo da garantire la massima sicurezza, svincolandosi dalla ricerca delle rugosità e delle fessure in cui si devono infilare i dadi a incastro o battere i chiodi. Sono sempre meno i giovani che conoscono l’uso di martello, chiodi e dadi, l'arrampicata sportiva è più sicura e meno stressante (anche se più consumistica), è l'evoluzione dell'arrampicata in palestra che si espande sulle grandi pareti.”

L'arrampicata sportiva ha rotto un tabù, quello che imponeva di usare solo le fessure naturali della roccia, di non farle violenza, insomma. Ora l'etica viene spostata più in là a favore della sicurezza. Mario continua: “Si è dibattuto a lungo se era il caso di “spittare” (bruttissimo verbo davvero) anche le vie classiche. Attualmente viene accettata l'apertura di vie nuove dal basso con “spit” là dove non ci si può proteggere in nessuna altra maniera, mentre è meglio che le vie storiche restino semplicemente attrezzate con i chiodi, per rispetto nei confronti di chi ci ha preceduti, e ai quali dobbiamo molto, e verso noi stessi.”

Ma Attilio De Rovere non era solo (come capita di leggere su alcune recentissime guide di arrampicata sportiva), quando sul Bila Pec, nell’agosto del 1988, forse per la prima volta in regione, ha aperto una via di arrampicata sportiva in montagna, era in compagnia di Mario Di Gallo…. Attualmente però Mario si dedica esclusivamente a un alpinismo classico e di esplorazione, anche se non disdegna di mettersi alla prova sulle vie “spittate”e soprattutto come allenamento di inizio stagione.

Quali sono le vie di roccia da consigliare sulla Grauzaria? Mario non ha dubbi: “Senz'altro la classica Gilberti-Soravito del 1927, con difficoltà medio basse, adatta per neofiti e non. E' bella per l'ambiente e la qualità della roccia, e l’alpinista pare venga condotto dalla parete stessa per la strada più facile, evitando un apparente dedalo di tetti, strapiombi e spigoli. Tutte le soste sono state attrezzate con “spit” negli anni ‘90 per renderla più sicura, per prevenire incidenti e per facilitare un eventuale ritorno in corda doppia. Se saliamo con le difficoltà, è consigliabile anche lo spigolo integrale Nord della Sfinge (VI e VII), oppure la via Bizzarro-Simonetti (IV, V). Sulla Creta dei Gjai c'è bella roccia sulla diretta Stabile (VI). Invece per quanto riguarda l'arrampicata sportiva, la Grauzaria è assolutamente “vergine”, anche se ci sarebbero pareti adatte, come quelle basse della Sfinge (la parete nord per 120 m e la base della Cima Est), ma non vorrei dare troppi facili suggerimenti…Lo studio di una parete, ma vorrei dire la sua contemplazione e la sua comprensione, sono un passo importante di ogni alpinista, o arrampicatore, che si rispetti!”

E' vero che hai aperto anche di recente vie nuove qui in Grauzaria? “Ne cito due visibili dal Rifugio: insieme a Daniele Moroldo, mio attuale e forte compagno di cordata, nel 2005, sulla parete est della Crete dai Gjai, vicino alla "Direttissima Stabile", ho aperto la via “Il giorno della salamandra”, su roccia bella con passaggi di VI-; sulla parete nord-est della Sfinge dal 2003 c’è la via “Fruts di caselin”, per fissare sulla roccia il ricordo di un bellissimo aneddoto che mi ha raccontato Corrado Druidi, di V con tratti fino al VI+ per un dislivello di oltre 500 m, su bella roccia dolomitica, ma che nessuno ripeterà mai… Le relazioni di queste vie sono state pubblicate sulla rivista Le Alpi Venete.”


Una bella immagine di Mario Di Gallo

Mario è tra i pochi oggi a praticare un alpinismo classico di tipo esplorativo a un certo livello, cioè cercando sulle pareti tracciati inediti, mai percorsi prima. “Ormai non c'è tanto spazio per vie nuove, specialmente su pareti come queste della Creta Grauzaria. Quando sono attratto da una parete, in realtà cammino in montagna sempre con il naso per aria (è più forte di me), comincio a contemplarla poi nasce l’idea…, estraggo il binocolo e scruto le pieghe della roccia, cercando di seguire con gli occhi l’idea, è una sensazione molto intensa quella che mi fa pensare: si può fare… Una volta a casa mi documento: consulto guide, fotografie, cerco tutte le riviste possibili, raramente chiedo lumi a qualche amico fidato (e che non arrampica più), sai, una via nuova richiede anche molto impegno intellettuale e riservatezza. In ogni caso chi è passato prima di me merita tutto il rispetto e, Gino Buscaini me l’ha insegnato, ogni volta che si incrocia, o ci si sovrappone, a una via già esistente bisogna dichiaralo chiaramente! Lo dico perché certuni, troppo sbrigativi o per smania di successo (poveretti), ricalcano vie già salite spacciandole per prime: è il caso di quattro vie aperte da me e che Mazzilis, in tempi molto successivi, si è inopinatamente attribuito (la data della pubblicazione non teme smentita). Mi preme ricordare soltanto la “via Lampo e Cai”, salita per la prima volta nel 1993 con Remigio Stefenatti e dedicata a due alpinisti scomparsi, che Mazzilis stesso ha definito come la più bella e difficile (che naturalmente merita di diventare una classica) di tutta la Creta di Aip (detto da lui, per me è un grande onore), ritenendo di aver fatto la prima ascensione nel 2005. Insomma a me piace osservarle a lungo, le pareti, anche per ore, fantasticandoci sopra e interpretandone i segreti. Il piacere principale di tutto questo gioco consiste nella contemplazione e nel desiderio, poi naturalmente ci vuole anche l'azione che, purtroppo, si identifica con il possesso che significa però la scomparsa del desiderio. E mi chiedo spesso se tutto questo non significhi anche consumo… spero di no. In questo modo, forse aiutato da letture che non mi faccio mai mancare nel tempo libero, ho scoperto ciò che cerco in montagna e ciò che alimenta la mia passione: è la bellezza, in tutti i sensi. Bellezza delle forme, delle incisioni e dei colori delle pareti che cambiano al passaggio dei raggi solari, della roccia nelle sue minute lavorazioni, della linea di un itinerario logico e sicuro, dei gesti necessari alla progressione e dei rapporti d’intesa e di fiducia che si rafforzano con il compagno di cordata.”

Quali novità ci riserva la Creta Grauzaria? “Impensabili anche a chi, l’hai detto tu, la conosce come le proprie tasche: nel 2005, sorprendentemente e inseguendo le mie contemplazioni, ho trovato una nuova via che si può definire una “normale” (con difficoltà massime di II) alla Cima Senza Nome. Si parte dal Bivacco Feruglio, ai tempi edificato con un solo collegamento relativamente semplice con il fondo valle (il sentiero Ferrucci), e procedendo senza perdere quota, si raggiunge la parete est che non oppone grandi difficoltà a chi la sale. Dalla cima poi è facile raggiungere la Creta Grauzaria e scendere al Rifugio. È la seconda possibilità questa, oltre al sentiero attrezzato Cengle dal Bec, a permettere il periplo della Creta superando difficoltà che non richiedono la progressione in cordata. A questo punto si può anche pensare a un'alta via di un certo impegno che attraversi tutta la Creta Grauzaria e, scendendo al Portonat, si colleghi poi attraverso il sentiero Nobile (Cima dai Gjai e Cima del Lavinale) alla forcella Nuviernulis e alla via normale del Sernio. E' vero, gli alpinisti non sono più molti, ma in compenso il livello escursionistico si sta alzando, e questo itinerario sarà ottimo e meraviglioso pane per i loro denti.”

lunedì 1 dicembre 2008

Val Aupa: la valle dei maggiociondoli



(Diari di mont 3 - 20 luglio 2008) E' venuto il momento di fare un primo paragone tra il mondo degli escursionisti e alpinisti che frequentavano il rifugio vent'anni fa e quello che abbiamo potuto vedere in questo inizio di estate 2008.
Con piacere misto quasi a incredulità tutti e quattro noi del team del Grauzaria ci troviamo d’accordo nel dire che le cose sono cambiate decisamente in meglio!


La Cima dei Gjai dal Rifugio

Ospiti rispettosi

E' strano, perché di solito la memoria porta a mitizzare il passato e a far dimenticare in fretta i ricordi sgradevoli,eppure stavolta non è così. Inoltre i diari che ho tenuto puntigliosamente all’epoca mi consentono di rivivere nel dettaglio fatti e emozioni. Non conserviamo un bel ricordo della vecchia clientela del Rifugio, che era piuttosto insensibile dal punto di vista ecologico. Quasi ogni domenica sera, facendo il giro dello spiazzo attorno, ci capitava di trovare in giro immondizie e lattine vuote, talvolta addirittura nascoste – si fa per dire – sotto una pietra oppure su un vaso di fiori o nella legnaia. Ricordo che avevamo dei bei cartelli “educativi”, ma che il loro effetto era scarso. Nel nostro 2008 invece nulla di tutto questo si è mai verificato, non vengono mai lasciate immondizie in giro e solo raramente ci viene chiesto di buttare via qualche bottiglia di plastica o di vetro. Il monte Sernio dal Foran da la Gjaline

Anche i fumatori, dobbiamo dirlo, sono educatissimi, e non lasciano nemmeno cicche spente sul piazzale. Abbiamo avuto finora solo clienti – anzi ospiti – discreti ed educati, e nel complesso sensibili e poco pretenziosi. Quei pochi che ci chiedono il cappuccino e cui rispondiamo di avere solo il caffè fatto con la moka, quasi si scusano per la loro richiesta e si adattano immediatamente alla nuova situazione. Non era così negli anni Ottanta, quando nonostante la palese mancanza di energia elettrica al Rifugio, le richieste assurde come gelati, bibite ghiacciate e cappuccini con poca o tanta schiuma ci affliggevano in continuazione e ci davano un costante senso di inadeguatezza, forse a causa della nostra giovane età. Ma ormai niente di tutto questo, per fortuna. Una situazione quasi idilliaca quindi, di maggiore consapevolezza ecologica e rispetto per l'ambiente.


Donne in montagna

Per parlare del rovescio della medaglia, dobbiamo dire – in sintonia con un'osservazione fatta da tanti altri colleghi “rifugisti” - che ci sono pochissime persone che si fermano a pernottare e ancor meno sono quelli che si dedicano a forme impegnative di escursionismo, come traversate e alte vie. Ci sono anche pochi alpinisti a cimentarsi sulle vie di roccia di cui pure la Grauzaria abbonda: ma questa tendenza era visibile già alla fine degli anni Ottanta, quando la nostra montagna non era più tanto di moda, dopo essere stata per decenni la favorita degli arrampicatori udinesi proprio per la sua vicinanza alla pianura. Chissà che il caro-benzina non la riporti in auge!


I primi (e unici) ospiti-ciclisti al Rifugio

Quello che invece rappresenta un notevole cambiamento sono le frequentatrici femminili, in gruppo, in due ma sempre più spesso anche da sole, e io come donna non posso che rallegrarmene. Una novità assoluta per noi sono gli escursionisti in mountain-bike, anche se a dire il vero finora ci sono capitati solo quattro baldi giovanotti che, risaliti fino al crinale della foresta Forchiutta con la strada interpoderale di Zouf di Fau, sono capitati qui da noi scendendo per il sentiero dalla sella Foran del la Gjaline.


Sul Foran da la Gjaline

Si sono fatti una lauta mangiata e dopo aver acconsentito a farsi fotografare come primi ospiti-ciclisti, se ne sono scesi in volata lungo il sentiero sotto i nostri occhi attoniti, increduli e ammirati, affermando che sarebbero scesi a valle (500 metri di dislivello) in circa 15 minuti!

Genius loci

Ma al di là dei rapporti con turisti e alpinisti che salgono al rifugio, che sono curiosi di noi e per i quali noi costituiamo in certo qual modo un fulcro, in quanto il movimento viene da loro verso di noi, un rapporto ben più difficile e complesso, in cui siamo noi a doverci muovere, è quello con i moggesi e soprattutto con gli abitanti - quasi nostri “vicini di casa” - della val Aupa, cui è sempre andata la nostra massima attenzione. Ricordo ancora il giugno 1984: quando percorrevo in auto le prime volte la val Aupa tutta fiorita di maggiociondoli, mi accorgevo che molte persone, sulla strada, mi fissavano incuriosite distogliendosi per un attimo dalle loro occupazioni. Questo all’epoca mi metteva in grande imbarazzo facendomi sentire un po’ un’intrusa, anche se nel frattempo ho capito che succedeva perché di gente ne passava veramente poca, e gli abitanti della valle erano spesso in grado di capire dal rumore della macchina se si trattava di una persona nota o di un forestiero. Ora invece non si incontra quasi anima viva fuori di casa, e mi fa pensare che la valle si sia ulteriormente spopolata.



La Grauzaria da Chiaranda

La val Aupa da Moggio sale verso Nord fino alla sella di Cereschiatis (lo strano nome probabilmente deriva da cjariesâr, ciliegio), a m 1066, da dove si scende a Studena e poi a Pontebba. Non ci sono molti paesi: Pradis, Chiaranda, Grauzaria, Dordolla e Bevorchians, con le loro piccole borgate e case sparse e 200 anime in tutto. La valle ci ha sempre affascinato, i suoi abitanti schivi ed enigmatici ai nostri occhi sembravano concentrare l’essenzialità del genius loci che a noi– abitanti della pianura – sfuggiva.
Solo molti anni dopo la lettura dell’illuminante libro di Franco La Cecla “Mente locale” ci ha chiarito con acute considerazioni come le persone di un posto si rapportino a quel posto stesso, come l’abitare sia una conversazione ininterrotta tra la nostra presenza e quella dei luoghi. E citando il poeta americano Wallace Stevens ci ricorda che “l'anima è composta dal mondo esterno” e che “ci sono abitanti di una valle che sono quella valle”. Forse in modo confuso anche noi lo sentivamo.

Risalendo la valle

Guardando da Mueç (vorrei usare qui di seguito i nomi friulani, che mi sembrano più significativi) verso l’imbocco della valle, si vede solo la mole del Montusel (m 1362) sulla sinistra e sulla destra la mont di Masareit (m 1459), crestone roccioso che assomiglia alla pinna dorsale di una grande pesce e che separa la val Aupa dalla disabitata val Alba.


La mont di Masareit

In secondo piano torreggia la cima del Ciuc dal Bôr con il suo caratteristico cocuzzolo terminale. La Grauzaria si svela solo in un secondo momento, dopo Pradis e Cjarande (la siepe), ma allora si impossessa di tutto il quadro, rivestita di verde in basso e candida in alto, con un grande ghiaione al centro. Pradis, diviso in tre borgate, se ne sta sulle ultime propaggini del Masareit, Cjarande è un gruppo di case sparse lungo la strada. Dopo un ponte, una casa cantoniera e una fontana, detta l'aip dai cjavâi, con un’acqua molto buona; poco oltre la graziosa Maine dai pins.



La Maine dai pins

La strada, completamente rifatta dopo la disastrosa alluvione del 2003, ora è larga e scorrevole e invita talvolta a una velocità eccessiva, che impedisce di cogliere i particolari del paesaggio. L'acqua del torrente luccica al sole precipitando dalle briglie con delle brevi cascate. Dopo 5 km ecco sulla sinistra l’imbocco della strada per il paesino di Grauçarie, che vale assolutamente la pena di vedere per l'armoniosa disposizione delle case e gli orti lussureggianti.


Campetto di fagioli sulla riva del torrente

Ma ecco un bel campo di patate e di fagioli sulla riva del fiume. Luccicanti strisce di stagnola, legate sui raclis dei fagioli, si muovono nel vento e forse tengono lontano gli uccelli, ma certo rallegrano lo sguardo e parlano di chi ancora coltiva la terra. Guardano verso la strada anche le poche case dei Zais, accoccolate su uno speroncino pochi metri sopra la strada e raggiungibili solo a piedi con una scalinata. Chi ci abita deve solo portare una sedia fuori dalla porta di casa e, appoggiato alla balaustra, può godersi il passaggio come da un palco di teatro.


Dordolla la bella

Sulla sponda sinistra dell'Aupa spunta tra gli alberi il bianco campanile di Dordole, alta su uno sperone. E’ il paese più bello e più vivo della valle, ci sono una cinquantina di abitanti stabili con un discreto numero di giovani e di ragazzi.


Il bel sorriso di Lavinia, che gestisce il bar di Dordolla

Con le sue case strette le une accanto alle altre, i vicoletti e i portoni ad arco, una piazzetta con la fontana, ricorda vagamente Venezia, tanto che una voce popolare – non priva di esagerazione – afferma: “Venezia è bella e Dordolla è sua sorella”. Sulla piazza oltre alla chiesa si affacciano un bar con un piccolo spaccio di alimentari e un ex asilo dall'aspetto particolare.


L’ex asilo di Dordolla

Da qui la Grauzaria può apparire in modo inconsueto incorniciata dalle bandierine della festa del paese oppure da alte piante di fagioli fiorite di rosso.

La Grauzaria da Dordolla, incorniciata da mais e fagioli

A sua volta, per vedere bene Dordolla bisogna salire ai Fassòz, unico borgo che si trovi fisicamente proprio “dentro” alla Grauzaria. Ci si arriva dal ponte di Dordolla, con un sentierino che inizia proprio dietro al crocifisso in legno. Oltre Dordolla, la valle è più selvaggia e ancor meno popolata. Vale la pena di fermarsi al vecchio mulino sul rio Fontanaz, facilmente visibile anche dalla strada (riferimento una fermata dell’autobus). Dal greto del rio se ne può osservare la struttura, ma avvicinandosi alla costruzione e scostando la vegetazione esuberante, si potrà ammirare sulla porta una data lontana: il 1797. A 10 km da Moggio troviamo Bevorcjans (“la biforcazione”), che in realtà è costituito da tutta una serie di borghetti e case sparse: Gjalòz, gli Ors, Gjalizis, Culòs, Saps, Matanins. Poi, in un meraviglioso bosco, la strada sale a tornanti a Cerescjatis, la sella dei ciliegi selvatici.